Spazio a nuove figure professionali, modifiche legislative, digitalizzazione, più attenzione ai vari segmenti di pubblico, meno autoreferenzialità e stop «ai nasi arricciati» di fronte all’interesse dei privati. Queste, in estrema sintesi, le proposte lanciate nel dibattito online “Il Futuro vive di cultura, nuove frontiere e modi di fruizione del patrimonio culturale”, volto a immaginare il rilancio strutturale del nostro immenso patrimonio nell’era post-covid, quando gli indicatori già prevedono anni di sofferenza.
Sullo schermo del Pc erano presenti Remo Tagliacozzo, amministratore unico di Zètema Progetto Cultura; Umberto Croppi, direttore di Federculture; Franco Pavoncello, presidente della John Cabot University (JCU).A moderare Antonella Salvatore, docente di Marketing, direttore del Centro di Alta formazione e Avviamento alla Carriera della JCU, e organizzatrice dell’evento virtuale.
«Nel post- covid credo sarà importante concentrarsi sui giovani e dare spazio a figure nuove. L’accademia deve andare di pari passo con l’esperienza e la pratica. Da noi, gli studenti non studiano cultura e arte come osservatori passivi, ma seguendo parallelamente studi di management, psicologia, digitalizzazione; e si confrontano con centinaia di imprese in qualità di stagisti», ha spiegato Franco Pavoncello.
«Manager, museografi, economisti della cultura: il mercato pubblico non tiene conto di queste figure professionali, estromettendole pure dai concorsi. Il legislatore dovrebbe avere una nuova visione. Dobbiamo imparare anche che esistono attitudini e competenze diverse. Per fare un esempio fra tanti, l’organizzazione della visita o della mostra va gestita dall’esperto di comunicazione, non dallo scienziato. E così via», ha affermato Umberto Croppi.
«È necessario invertire il paradigma: ragionare su cosa piace ai diversi segmenti di pubblico, puntare maggiormente sulla soddisfazione del cliente-fruitore anche sulla base dell’innovazione tecnologica, ma tenendo ben presente che nulla potrà mai sostituire una visita o un viaggio», ha dichiarato Remo Tagliacozzo.
In Italia i musei digitalizzati sono appena l’11,5%, anche se, come ha ricordato Antonella Salvatore,«esistono singoli esempi virtuosi di innovazione». In ogni caso, il virtuale non è alternativo al reale: i due aspetti devono integrarsi, Un punto, questo, che ha trovato d’accordo tutti gli intervenuti.
«È terminato il momento di arricciare il naso di fronte a un privato che vuole guadagnare; senza abusare, ovviamente. Ci vuole meno autoreferenzialità, la cultura è il terzo prodotto italiano. È importante sviluppare il partenariato pubblico-privato. E bisogna evidenziare che nel mondo tutti i musei contano su cospicui contributi pubblici», ha sottolineato Remo Tagliacozzo
«I privati vanno dove c’è energia, dove la realtà pubblica ci crede. In Italia non c’è un solo museo che abbia un ufficio per il fundraising. Non solo. Tutte le norme introdotte con lo scopo di favorire le partnership pubbliche-private hanno sempre ridotto progressivamente questa possibilità. Il combinato disposto dei Codici degli appalti e dei Beni culturali ha introdotto regolamentazioni per le sponsorizzazioni e i project financing che, di fatto, hanno impedito la loro attuazione», ha sostenuto Umberto Croppi.
«L’epidemia avrà degli strascichi che dureranno anni. La cultura del post-covid è sposata con il turismo post-covid, perché tutte le innovazioni possibili non sortiranno effetti se non riprenderanno le visite di milioni di turisti. In questo senso credo sia importante tenere presenti anche gli studi sui protocolli di sicurezza», ha aggiunto Franco Pavoncello.